Le magagne più vistose del sistema-Italia sono arcinote: da decenni la società è costretta a fare i conti con una burocrazia obesa e pervasiva, un fisco esoso e sempre più famelico, una redistribuzione del reddito che penalizza le regioni virtuose premiando quelle viziose. Di riforme si è molto parlato in questi anni, ma nel Bel Paese tramutare le parole in fatti è impresa ardua: l’intero sistema poggia su fondamenta di corruttela, prebende e privilegi che nessun partito ha interesse a minare.
Anche l’idea federalista, forse il piano più organico e lungimirante di ristrutturazione dell’edificio statale, è stata sciupata dalla strategia politica della Lega Nord, ed è ormai uno slogan propagandistico, una parola magica da dare in pasto all’elettorato moderato. Dietro al progetto di una federazione italiana stava, in origine, Gianfranco Miglio. Il politologo comasco, con il valido aiuto del Gruppo di Milano, elaborò un articolato sistema federale che avrebbe dovuto sostituire quello centralizzato, in pieno declino; ma quando nel 1994 la Lega Nord entrò al governo a fianco di Forza Italia e Alleanza Nazionale, fu Francesco Speroni ad essere nominato Ministro per le Riforme. Senza la direzione del professor Miglio, il progetto federalista era destinato ad una fine miseranda, e difatti non se ne fece nulla.
A poco servì la fondazione del Partito Federalista capeggiato dallo stesso Miglio; la piccola formazione fu relegata nell’angolino da una Lega in costante ascesa.
Il vento di cambiamento che spirava all’inizio degli anni ’90 ora si è affievolito, e dopo la sbornia secessionista il partito di Bossi ha ingaggiato svariate, insensate battaglie in nome di un’imprecisata autonomia: dalla devolution al Lombardo-Veneto, dal federalismo demaniale a quello fiscale. Nient’altro che fumo negli occhi degli elettori, la cui reale colpa è di aver seguito dovunque il don Chisciotte di Cassano Magnago senza domandarsi esattamente dove egli intendesse condurli.
L’astuto senatùr sa benissimo che un vero conflitto tra centro e periferia per la conquista di un ordinamento federale sarebbe disastroso e dispendioso; ma soprattutto si rende conto che, se lo Stato centrale venisse sostituito da una snella struttura federale, i primi a rimetterci sarebbero i partiti che vivono grazie ai soldi dei contribuenti, Lega in primis.
L’intero apparato che regola e gestisce la mano pubblica vive di centralismo e parassitismo; ampi strati della popolazione, mantenuti da un intricata ragnatela di trasferimenti e redistribuzione, non tollererebbero la chiusura dei rubinetti.
E con maggior forza si opporrebbero alla riforma i gruppi di potere foraggiati dal denaro pubblico: in caso entrasse in vigore un rigido sistema federale si ritroverebbero presto nei guai.
Un sistema coerentemente federale farebbe comodo ai ceti produttivi, ma nessuna voce si alza in loro favore: ciò che giova alla società civile danneggia fatalmente l’apparato. Per queste ragioni il federalismo, ormai, non è altro che un’esca alla quale molti ancora abboccano.
Il problema, però, non si esaurisce qui. In Italia il federalismo probabilmente non attecchirà mai, e non solo per la strenua resistenza dei ceti privilegiati: alcuni indizi lasciano intuire che un sistema simile sia del tutto inadeguato ad un Paese come il nostro.
1. In un sistema coerentemente federale ogni Stato o Cantone è tenuto ad autogovernarsi. Non può dunque dipendere da un altro Stato o Cantone federato. Scrive Alessandro Storti: «Autogoverno significa prelievo delle risorse e loro utilizzo in loco, con versamento di una quota ridotta alla federazione. […] Se una comunità politica non dispone della forza e delle risorse per difendersi (non necessariamente perchè povera, ma poichè il patto federativo glielo impedisce) allora è inutile anche soltanto continuare a chiedersi se essa faccia parte di una unione autenticamente federale».[1]
In Italia solo poche regioni, come Lombardia e Veneto, hanno le carte in regola per beneficiare di un rigoroso autogoverno: nel resto del paese, laddove non mancano le risorse, manca una cultura politica che favorisca l’impresa e anteponga, al sussidio dello Stato centrale, la produttività e il dinamismo che contraddistinguono le realtà più virtuose. Il Mezzogiorno non potrebbe in alcun modo inserirsi in un sistema federale: non riuscirebbe ad autogovernarsi, per mancanza di risorse e secolare assuefazione all’assistenzialismo.
Non dimentichiamo che il foedus, il patto che sta alla base dell’unione consensuale garantita dalla federazione, necessita del consenso di tutte le parti interessate: e l’intera società meridionale, da sempre aggrappata allo Stato, non accetterebbe probabilmente le restrizioni al potere centrale che una costituzione federale imporrebbe.
2. Un sistema federale può costituirsi più agevolmente in un contesto culturale che ne favorisca lo sviluppo. La federazione ha radici più solide, se a darle vita è l’istinto delle comunità all’aggregazione pattizia e alla collaborazione. La cultura dell’autogoverno è stata spazzata via durante i secoli della prepotente affermazione degli Stati moderni, e sopravvive ora nell’angolo più “medievale” del continente: la Confederazione Svizzera. Il foedus nasce dal basso, dalla comune volontà delle parti di stringere un rapporto paritario mutuamente vantaggioso: anche da qui deriva uno dei tratti fondamentali del federalismo, e cioè il frazionamento e l’equilibrio dei poteri. Tra federazione e singoli Stati o Cantoni non possono esistere sproporzioni evidenti: nessuna autorità può imporsi sulle altre e cancellarne l’influenza. Il processo di accentramento del potere in un polo unico ha causato il deterioramento di molte federazioni come gli Stati Uniti e la Germania.
In Italia la cultura federale è praticamente quasi inesistente, e ne mancano anche solo i presupposti. Nel ricco nord, nonostante le affinità tra svizzeri e lombardi, una coscienza del genere latita; al sud, secoli di centralismo amministrativo -da Federico II di Svevia a Ferdinando II di Borbone- l’hanno estirpata come un’erbaccia.
Un patto del Grütli[2] in salsa peninsulare tra lombardi, veneti, siciliani, toscani e romani pare dunque altamente improbabile. E una federazione imposta per decreto sarebbe come una costituzione ottriata, cioè concessa dall’alto, priva di una compartecipazione della comunità interessata e di reale significato politico: un edificio privo di salde fondamenta, destinato ad un crollo fragoroso. Un redivivo D’Azeglio direbbe in questo caso: “Fatta la federazione, dobbiamo fare i federalisti”. Ma la logica del federalismo si regge proprio sui presupposti contrari.
Insomma, di fronte ad ostacoli di questa entità, una comunità autenticamente federale dall’Alpi a Sicilia sembra un progetto del tutto irrealistico.
Come imboccare, dunque, la strada del cambiamento? Come accelerare la fine di questa Italia irriformabile e incorreggibile, se la via federale appare impraticabile?
Non è necessario che lo Stato cerchi di stilare una costituzione improntata al decentramento. Basta che si faccia da parte, e lasci che a decidere del proprio destino, pacificamente e consensualmente, siano finalmente le comunità che finora il potere politico ha sfruttato e mortificato. Solo il diritto alla piena autodeterminazione può dissolvere i legacci che soffocano i cittadini, inchiodandoli al dogma dell’unità nazionale.
Note
1. Articolo pubblicato su Enclave, dicembre 2000.
2. Accordo siglato nel 1291 presso l’omonimo prato, che sancì l’unione dei primi tre cantoni elvetici di Uri, Schwyz e Unterwalden.
http://www.lindipendenza.com/riformare-il-paese-lo-stato-si-faccia-da-parte/