Fenomenologia della Lega: nascita, ascesa ed eutanasia di un partito (Parte prima)
di MARCO BASSANI
Confesso di parlare controvoglia di partiti politici: non è il mio campo e mi sembrano, con ben poche eccezioni, discorsi da bar. Tuttavia, nei bar oggi si parla solo di calcio, crisi e palinsesti televisivi e poi nel caso specifico della Lega si può ben fare un’eccezione: in fondo si tratta di un’autopsia da eseguire a seguito di un’eutanasia. E l’autopsia di un partito rientra (seppur latamente) fra i compiti di uno storico.
La Lega appartiene al giurassico della politica: è il più antico partito presente in Parlamento, sorto quando le Germanie erano due, la guerra era fredda e Andreotti era (quasi) diritto. Ora, chiunque voglia comprendere il fenomeno “Lega” non può partire dagli ultimi tre lustri – periodo nel quale il partito ha fatto parte del sistema e più spesso del “regime” – ma deve necessariamente studiarne la genesi, ossia gli anni della lotta (1987-1994). Questo vale per la comprensione di ogni partito autenticamente o burlescamente “rivoluzionario”. Gli storici del Partito nazionalsocialista concentrano la loro attenzione sui quasi quindici anni precedenti alla presa del potere, ossia nelle lotte politiche di Weimar. Dalla presa del potere in poi (1933), il NSDAP conta pochissimo e la storia propone ben altri e più potenti attori: lo Stato tedesco e il suo esercito. Il partito bolscevico, parimenti, si è strutturato interamente nel periodo zarista e quindi in clandestinità: Lenin, Stalin, Trotskij e tutti gli altri grandi dirigenti si sono formati in esilio o al confino. Il cristianesimo delle origini si studia nelle catacombe prima che nelle strutture di potere del declinante impero romano.
Ma, senza scomodare illustri (o infami) predecessori, la lotta contro la partitocrazia, il CAF (Craxi-Andreotti-Forlani), e in generale il clima politico degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta sono stati decisivi nella formazione dei dirigenti della Lega. E forse il plurale è di troppo giacché la Lega è la mente di Umberto Bossi e i gerarchi sono sempre stati i suoi coadiutori del momento, autentici precari della politica (con un altissimo tasso di declino e scomparsa: Castellazzi, Rocchetta, Marin, Tabladini, Gnutti, Pagliarini e tanti altri. Ohibò, nessun epurato il cui cognome finisca in “oni” … eppure ce n’era un bel terzetto fin dalla prima ora).
Quando Bossi smise di fare il fuoricorso di professione e di indossare il camice bianco fingendosi medico – su cosa abbia fatto il sedicente rappresentante delle aree più produttive d’Europa per i primi 38 anni della sua vita regna il più fitto mistero – folgorato sulla via dell’autonomismo dal compianto Bruno Salvadori, esistevano tre partiti nelle aree di lingua italiana fuori dal Ticino: il Partito comunista, la Democrazia cristiana e il Partito socialista. Il resto era elettoralmente poco più che un prefisso telefonico e pulviscolo ideologico. La mente dell’Umberto, il motore primo della Lega, studiò attentamente ognuna di queste macchine organizzative e strumenti di lotta per il potere e da ciascuna di loro prese qualcosa. Tanto che il partito che ne venne fuori era la perfetta fusione di alcuni degli elementi costitutivi di DC, PSI e PCI. In estrema sintesi, dai comunisti Bossi copiò il “centralismo democratico” con tutti i suoi corollari, dai socialisti, tattica e strategia politica, dai democristiani prese la voglia di compromesso e il costante gioco al ribasso, un doroteismo di fondo che accompagnerà la Lega sia nella lotta che nel governo.
In questo articolo (primo di una serie che si allungherà sulla base delle richieste dei lettori: vero esempio di paragiornalismo interattivo) incentreremo l’analisi sulla storia d’amore fra Lega e Pci.
Si narra che Bossi conoscesse tale partito non per sentito dire, avendo militato nelle sue fila nei primi anni Settanta. In ogni caso, non c’è dubbio che del grande Partito comunista egli ammirasse la coesione, il radicamento territoriale (e non mi riferisco all’Appennino tosco-emiliano) e la netta distinzione fra dirigenti e militanti. In realtà, ciò che la Lega prese dal Pci fu una versione peculiare del “centralismo democratico”. Questo principio, che si può sintetizzare col motto “massima discussione all’interno e massima compattezza verso l’esterno”, era la forza dei comunisti in tutto il mondo. In primo luogo, perché la discussione interna durava pochissimo e poi perché la compattezza esterna era granitica: dall’ultimo militante al segretario la linea era unica. Il partito, per i comunisti, non solo doveva diventare l’intellettuale collettivo, ma era il vero sostituto della “classe”. Nella ricerca della “linea”, il Pci era agevolato da un fatto: la sua prima ragion d’essere – come sosteneva un mio antico maestro, Giuseppe Are – era la politica estera dell’Unione sovietica.
La Lega non aveva né stelle polari, né un corpus politico-dottrinario paragonabile al marxismo-leninismo e dovette dunque declinare in maniera piuttosto semplicistica il “centralismo democratico”. Divenne semplicemente un “centralismo umbertino”: Bossi aveva sempre ragione perché rappresentava i risentimenti di un Paese identificato con un punto cardinale (la Nord-nazione …), ma soprattutto perché il movimento cresceva e i voti aumentavano. Il suo leggendario “fiuto politico” allora faceva crescere il movimento e poi sarebbe stato la chiave per resistere al potere oltre ogni ragionevole attesa. Dal 1987 al 1992 la Lega era quasi inesistente nel palazzo, ma cresceva tumultuosamente nelle regioni del Nord (tanto che Sama, per non sapere né leggere, né scrivere, allungò un bel 200 milioni di lire anche al partito di Bossi per mezzo del “pirla” Patelli).
Ma dal Partito comunista Bossi prese qualche cosa di ben più importante della regola che “il capo ha sempre ragione”, ossia l’idea dell’esistenza della doppia verità, una fatta per i semplici militanti e l’altra ristretta a una cerchia di accoliti del capo. Un aneddoto storico illustrerà meglio il punto. Un partigiano, segretario comunista di una provincia del Nord, si recò negli anni Cinquanta a visitare l’Unione sovietica. Al suo ritorno convocò tutti i militanti locali e disse apertamente che se fosse accaduto qualcosa del genere da noi avrebbe ripreso il mitra e sarebbe tornato in montagna. La cosa giunse all’orecchio di Togliatti, il quale lo convocò a Roma e gli parlò con grande franchezza. “Vuoi che non sappia cos’è l’URSS? Ma a dire certe cose si fa il gioco dell’imperialismo americano e si nuoce agli interessi del proletariato”. Da quando fu reso edotto della principale doppia verità sulla quale si fondava il partito, l’ex partigiano diventò il migliore e il più fedele fra i dirigenti comunisti, perché faceva parte della cerchia degli affiliati di primissimo grado. Alcuni sostengono, ma lo aggiungo solo per dovere di cronaca, che i comunisti avessero mutuato l’idea di una verità adatta alle masse e di una che si attaglia ai chierici, da un’importante e plurimillenaria istituzione non irrilevante nelle aree italiche.
La serie delle doppie verità leghiste iniziava con l’End-Ziel, lo scopo finale, per poi ripercuotersi su tutta la linea. Il federalismo era sì il sogno dei militanti, l’auspicio degli elettori, e forse era anche guardato con simpatia dai parlamentari, ma si tramutava in oggetto di privata ironia da parte della piccolissima cerchia dei dirigenti che contano (un po’ come l’ideale della società senza classi fra i comunisti). Se così con fosse stato, sarebbe risultata impossibile l’indicizzazione sgangherata dell’End-Ziel negli ultimi 20 anni: macroregioni, indipendenza, devoluzione, regionalismo (blando e spinto). Bossi agiva sulla base di un motto del marxista revisionista Bernstein (1899): “Il movimento è tutto, il fine è nulla”. Il partito, inoltre, si stanziava stabilmente a Roma e in quella città, non sempre amata dai suoi elettori, riponeva tutti i propri sogni e le proprie fortune, presentandosi sì come “cane da guardia dei soldi del Nord”, ma in realtà pronto a diventare il partito di Roma radicato nel Nord (proprio come il Pci, secondo le accuse degli estremisti di sinistra, era diventato da partito della classe operaia nello Stato borghese, a partito dello Stato nella classe operaia). Il fatto è che quelli che Miglio chiamava i “salotti porcaccioni romani” attiravano enormemente i provinciali cisalpini e solo i meno avveduti immaginavano di andare a Roma a fare la rivoluzione. Gli altri sapevano ciò che la città eterna eternamente offre ed erano pronti a coglierlo: potere, sesso e danaro, non necessariamente in quest’ordine.
A Bossi piaceva molto anche l’idea della militanza comunista. Infatti, egli subito copiò una regola aurea del Pci: i parlamentari devolvevano al partito tutti i soldi per i collaboratori. Le sezioni della Lega, come quelle comuniste, si caratterizzavano per una presenza capillare sul territorio e per l’utilizzazione della passione (ossia soldi e tempo) dei militanti. Su di una cosa il capo si discostò, invece, dall’esempio del Partito comunista. Quest’ultimo, infatti, da Gramsci in poi, aveva sviluppato un’autentica venerazione per gli intellettuali, nella convinzione che alla fine le masse pensano esattamente come le élite. Se conquistare i centri nevralgici dell’industria culturale era stato l’imperativo categorico del “comunismo occidentale”, Bossi si dimostrò in questo campo allievo di un comunista asiatico: Pol Pot. Per qualche anno fu tollerata nella Lega la presenza di una delle più lucide menti della cultura di lingua italiana, Gianfranco Miglio, ma il sospetto nei confronti di coloro che apparivano alfabetizzati non abbandonò mai il movimento bossiano. Al punto che per i leghisti valeva ciò che era stato già detto dei poliziotti sovietici, ossia che girassero sempre in tre: uno che sapeva leggere, uno che sapeva scrivere e uno che controllava quei due sporchi intellettuali. In breve, il leghista di professione non doveva fare ombra al capo.
La Lega, ossia Bossi, non ha mai compreso che la lotta politica è battaglia di idee e che se le idee non le fabbrichi in casa, sei costretto a usare quelle degli altri. Ma, persa ogni possibilità di discernere (si tratta di un’operazione intellettuale), diventa poi impossibile distinguere il grano dal loglio. E, infatti, incapace prima di elaborare l’eredità di Miglio e in anni più recenti di leggere e semplicemente recitare, un “manifesto politico” regalato da Ricolfi quale “Il sacco del Nord”, la Lega si è trasformata dal “peggior strumento per la migliore battaglia” ad una macchina di potere al servizio del nulla (o di “the family”). Mentre eseguiamo l’autopsia, queste semplici considerazioni ci preservano da qualunque forma di rimpianto. Il cadavere della Lega pone fine a un equivoco durato un quarto di secolo: la pressione fiscale, il processo di distruzione delle regioni produttive, l’imbarbarimento romano della vita politica non sono accadute nonostante la Lega, ma proprio grazie ad essa. La Lega ha rappresentato la garanzia che il “sacco del Nord” sarebbe proseguito senza troppe chiassate.
Il prossimo articolo (solo a grande richiesta…) analizzerà che cosa Bossi ha “preso e appreso” dai socialisti, anzi, da Bettino Craxi, apparentemente il nemico degli anni d’oro, in realtà il suo vero nume tutelare.