Al governatore il Piemonte sta stretto e vuole tornare alla ribalta nazionale. Per questo potrebbe staccare la spina già in primavera. Solo voci, ma insistenti. E nella Lega molti iniziano a criticarlo
“Cota non vede l’ora di togliersi la Regione dai Maroni”. È sintetizzato in questo sapido calembour, coniato da un parlamentare lombardo che raccoglie spesso le confidenze del suo ex capogruppo, il travaglio che affligge in queste ore il Governatur. Nel Carroccio è scoccata la scintilla del redde rationem e nello scontro tra il cerchio magico bossiano e la base maroniana difficilmente ci sarà spazio per posizioni mediane, attendiste, levantine. Come la sua, con la quale finora è riuscito a destreggiarsi, alternando doppiezza e doroteismo, tra le due fazioni in guerra per la leadership. Ancora l’altro giorno, alla riunione della segreteria regionale, convocata a Stresa, a margine della sessione del parlamento padano, Cota ha preferito eludere la questione e di fronte alla ventina di dirigenti e a Roberto Calderoli, presente all’incontro, ha fatto il pesce in barile. Salvo poi essere preso in contropiede dalla ricomposizione dello scontro e dal ritiro della fatwa, dando a tutti la percezione di una sostanziale marginalità nei giochi di via Bellerio. Da qui il rovello che lo assilla: come riconquistare quel ruolo di primo piano che tanto faticosamente si era guadagnato prima di confinarsi a Torino, in piazza Castello, e per di più contro il parere del cerchio magico che, a suo tempo, gli aveva consigliato di lasciar perdere, di non correre per la presidenza della Regione e restare a fare la guardia a Montecitorio. Ha fatto male i conti e ora, ammettono persino dal suo entourage, ne è pentito. E le voci su progetti di fuga si moltiplicano. Magari è una panzana sesquipedale, ma la notizia circola eccome. Cota sarebbe intenzionato a staccare la spina alla sua tormentata esperienza di governo, ben prima della naturale scadenza del mandato. Al punto, sempre a dar retta ai boatos di Palazzo, che vederebbe in Paolo Monferino la carta da giocare per la successione: è l’assessore forte, gode del sostegno dei poteri forti (di certo Fiat e dintorni), è visto di buon occhio dalla Procura e la stampa cittadina è parecchio benevola nei suoi confronti. Verosimile? Chissà.
La sua tentazione di eutanasia spiegherebbe anche la reticenza di Cota nel risolvere la spinosa questione dei sette “ribelli” di Palazzo Lascaris, i consiglieri del Pdl guidati da Angelo Burzi e Gian Luca Vignale, da mesi fronda interna della maggioranza, fino a condizionarne in più occasioni la linea politica. Nell’ultimo incontro prima della pausa natalizia, il governatore si è limitato a buttare un po’ di fumo negli occhi: attestati di stima, appelli all’unità, qualche “fosse per me, figuratevi”. E intanto il tempo passa, la primavera si avvicina e con essa la possibilità di un rovesciamento del tavolo. I sette possono diventare la sua bomba a orologeria, sono lì che bruciano a fuoco lento, basterà una spruzzatina di benzina per far divampare l’incendio e avere il pretesto per salutare tutti e tornare al fianco di Umberto Bossi, che ormai da mesi è costretto a reggersi da solo il posacenere. Dopotutto Cota è un esponente assolutamente sui generis della Lega Nord, il partito dei territori, che si caratterizza per la lodevole amministrazione degli enti locali, come dimostrano le performance dei veneti Luca Zaia e Flavio Tosi, in testa a tutte le classifiche dei governatori e sindaci più amati d’Italia. Lui, invece, ha sempre patito il Piemonte che era stato chiamato a guidare: poco più di una provincia periferica della grande Padania. Non più tardi di qualche mese fa, in una cena romana, avrebbe offerto la sua eredità a Roberto Maroni, ex primo inquilino del Viminale, l’unico a godere di credibilità nel rattrappito popolo padano. Ma poi è arrivato il voto alla Camera su Cosentino e i nervi sono tornati a tendersi. Il tutto mentre da mesi sembra alle porte il congresso “nazionale” piemontese, nel quale, se mai verrà celebrato, lui rischia addirittura di non essere riconfermato. E allora meglio tornare nell’occhio del ciclone, laddove tutto si fa e tutto si disfa: in via Bellerio.
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